Il signor Rebucchi


Pubblicata dalla Editrice Toro a partire dall’aprile 1947 e fino al marzo 1950, la serie Carnera pubblicava in ogni numero una storia a fumetti dedicata al più famoso pugile della storia d’Italia, scritta da Tristano Torelli e disegnata da gente come Franco Paludetti, Camillo Zuffi, Pini Segna, Piero Sartori, Dario Guzzon e Giovanni Sinchetto. A fianco delle storie disegnate, il giornalino pubblicava anche La vita di Primo Carnera narrata da P. Garzia, ma la cosa più interessante di quegli albi era Il Raccontino Economico, ossia le gustose avventure dell’iracondo signor Rebucchi narrateci da mano anonima.
Sono riuscito a recuperare 7 di questi brevissimi racconti, e ve li propongo ben volentieri per il vostro sollazzo.

Il signor Rebucchi camminava per la strada assorto in profondi pensieri lasciandosi spingere dalla folla e, quasi senza avvedersene, si trovò in un grande bazar. Fissò gli oggetti esposti in vendita sui banchi senza vederli, sempre molestato dai suoi pensieri, allorché un commesso, dalle spalle quadre e dal viso sanguigno, vedendolo fermo dinnanzi ad un banco si avvicinò premuroso e gli chiese affabilmente:
— Il signore desidera forse un cannello?
— Che cosa? — domandò Rebucchi sobbalzando nervosamente per l’improvvisa apostrofe.
— Ho detto — ripeté il commesso — se desidera acquistare un cannello.
Il viso di Rebucchi espresse la più grande meraviglia.
— Un cannello? E perchè dovrei comprare un cannello? — domandò.
— Beh — ribatté, stizzoso, il commesso — che cosa c’è di strano? Capisco le avessi chiesto se voleva acquistare un cammello ma…
La meraviglia di Rebucchi crebbe e domandò:
— Cammello? Voi vendete anche i cammelli qui?
— Nossignore. Noi non vendiamo cammelli, questo non è un giardino zoologico.
— No? — ribatté Rebucchi — e allora perchè mi ha offerto dì acquistare un cammello?
— Io non le ho offerto dì acquistare un cammello — replicò il commesso, mentre una piccola schiuma si formava all’angolo delle sue labbra — ho detto soltanto se lei voleva acquistare un cannello.
— E che cosa debbo farci con il cannello — ribatté Rebucchi, cominciando a stizzirsi. — Me lo metto in bocca?
— Lei si può mettere il cannello dove crede, a me non interessa.
— No?! E perchè non se lo mette lei il cannello dove crede; devo mettercelo io!
Rebucchi fulminò con un’occhiata feroce il commesso e gli volse le spalle allontanandosi, mentre l’altro si fece in viso pallido come un morto, stringendo i pugni per la stizza.


Il signor Rebucchi attendeva il tram, assorto nei suoi pensieri che non gli impedivano però di avvertire un forte senso di stizza poiché l’attesa si prolungava da più di venti minuti.
Sopraggiunse un signore grasso, dall’aspetto di provinciale e, scorgendo Rebucchi presso la fermata, gli si avvicinò toccandosi la falda del cappello.
— Scusi — gli domandò — che tram dovrei prendere per andare in stazione?
Rebucchi sobbalzò all’improvvisa domanda che lo strappava ai suoi pensieri e squadrò ostilmente il suo interlocutore dicendo con voce acida:
— Che cosa ha detto?
— Le chiedevo che tram dovrei prendere per… — ma non poté terminare che Rebucchi lo interruppe stizzosamente:
— E debbo dirglielo io quale tram deve prendere? Perchè non mi domanda anche quale giornale deve comprare o che cosa deve mangiare per colazione oppure, sì, mi domandi addirittura con chi si deve sposare?
Il signore grasso si piegò sotto il torrente furioso di parole e trovò appena la forza per reagire balbettando:
— Eh, accidenti, ma dico, non credevo mica di offenderla…
— Coosa? — vociferò furioso Rebucchi. — Perchè lei voleva anche offendermi? Crede che io sia il tipo da farmi offendere dal primo che passa?!
— Ma io non volevo offendere nessuno, per Giove, io le domandavo solo se dovevo prendere…
Rebucchi lo interruppe con voce agghiacciante:
— Ebbene, lo sa che cosa deve prendere lei? Un accidente che lo spacchi  in  due!
Rebucchi si calcò furiosamente con una manata il cappello in testa e si aggrappò al predellino del tram che finalmente era giunto, piantando in asso il signore adiposo che, cavato dalla tasca un grande fazzoletto a quadri, si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte.


Il signor Rebucchi aveva acquistato un cavatappi di nuovo tipo e, uscito dal negozio; si fermò sul marciapiedi rigirando fra le mani l’arnese ed osservandolo con curiosità.
Un giovanotto molto ben vestito e dall’aspetto assai giovanile gli rivolse la parola domandandogli:
—  Scusi, signore, questo è il Corso Panizza?
Il signor Rebucchi, che quel giorno era eccezionalmente di buon umore, benché sorpreso per la domanda, rispose con gentilezza:
— Veramente no. Questo è un cavatappi.
Il giovanotto arrossì sino alla radice, dei capelli e riuscì a stento ad articolare parola, tanto era la sua confusione:
— Io non intendevo parlare di quel coso che lei ha in mano. Sa, sono forestiero e non sono pratico della città…
— Di cavatappi è pratico invece? — lo interruppe il signor Rebucchi.
— Io?! Non so… ecco, come le ho detto, non intendevo parlare del cavatappi — rispose il giovane sempre più confuso.
— Ah, no? — domandò Rebucchi, accigliandosi. — E di che cosa voleva  parlare?  E  poi,   scusi,   perché vuol parlare proprio con me?
— Ma io — replicò il giovane al quale l’imbarazzo rendeva affannoso il respiro — volevo domandare semplicemente se questo è il Corso…
— E va bene! Ho capito, per Giove! Non sono né scemo né sordo! Lei, piuttosto… Non le ho mica già detto che questo è un cavatappi? — si spazientì Rebucchi.
— Creda, signore — disse il giovanotto, vacillando — che c’è un equivoco. Io volevo soltanto sapere…
— Macché equivoco, macché sapere! Ancora un po’ e mi domanda come si chiama mia moglie e vuol sapere dove abito, se ho figli e se mi purgo ogni sabato. Ma dico! Faccia il piacere!
Irritato, il signor Rebucchi, volse le spalle al giovane e si allontanò brontolando mentre l’altro lo guardava stralunato con gli occhi appannati per una gran voglia di piangere.


Il sig. Rebucchi fu pregato da un collega di sostituirlo allo sportello dei reclami ed egli acconsentì sedendosi al posto di lui. Tirò fuori dalla tasca un giornale di enigmistica e si dedicò alla soluzione di un gioco di parole crociate finché una vecchia signore si presentò allo sportello apostrofandolo  stridula:
— Senta — disse — io, il mese scorso ho  spedito  un  pacco…
Il signor Rebucchi, distolto dal suo passatempo, guardò annoiato la signora e ribatté con stizza:
— Mi fa tanto piacere! Proprio a me viene a raccontarlo? Io, il mese scorso, ho  comperato un ombrello ma non verrei, a raccontarlo a lei…
— Ma il pacco non è arrivato, esclamò la signora, cominciando eccitarsi.
— Doveva arrivare a lei, il pacco? — domandò Rebucchi, seccato.
— Oh, no! — si meravigliò la signora — Vuole che io spedisca un pacco a me stessa?
— Io non voglio niente! — ribatté Rebucchi — Soltanto, trovo che lei mi fa perder tempo. Se il pacco non doveva riceverlo lei, che cosa ha da reclamare? Capirei se lei avesse voluto spedire il pacco e non avesse potuto, ma poiché ha potuto spedirlo, che cosa ha da reclamai? Non è contenta?
— Contenta un corno — urlò la signora — Io, il pacco l’ho spedito perché giungesse a destinazione e non per il gusto di spedire un pacco. Comprende?!
— E inutile che alzi la voce, egregia signora — ribatté freddamente Rebucchi — Qui non siamo in piazza. Comunque a me non interessano i motivi per cui lei ha spedito il pacco. Ma guarda… Sarebbe bello se ognuno che ha spedito un pacco venisse qui a dirmi perché lo ha spedito! A me non interessa un accidenti!  Capito?
— Ma allora secondo lei, a chi dovrei, dire che questo maledetto pacco non è arrivato?
— Non saprei, però penso che potrebbe, dirlo a suo marito: mi sembra la persona più adatta, a ricevere le sue confidenze — rispose gentilmente Rebucchi e, poiché udì suonare la sirena di mezzogiorno, chiuse lo sportello.


Il signor Rebucchi sedette ad un tavolo esterno di un caffè per godere il tepore del primo sole primaverile. Un cameriere si avvicinò e gli chiese:
— Che cosa desidera il signore?
— Vincere alla Sisal — rispose con un sospiro Rebucchi.
Il cameriere sorrise forzatamente ed insisté:
— Il signore vuol scherzare. Domando che cosa prende?
— Il sole — rispose Rebucchi stirandosi come un gatto.
Il cameriere dovette costringere i suoi muscoli facciali ad un nuovo sorriso che sembrò piuttosto una smorfia di rabbia e replicò:
— Già, già. Mi vuol dire che cosa comanda, per favore?
— Beh,  ora nulla in verità, perché sono in borghese — rispose Rebucchi — ma durante la guerra comandavo un battaglione del III Fanteria.
I pomelli del cameriere divennero rossi e si portò le mani alla gola come se stesse per soffocare, ma si dominò e chiese ancora fremente:
— Infine, signore, mi vuol dire che cosa consuma?
— Per ora il fondo dei pantaloni, su queste maledette sedie di vimini — rispose Rebucchi con tono annoiato.
— Signore! — sibilò tra i denti il cameriere — Lei non può sta seduto al tavolo soltanto per fare lo spiritoso, ha capito? Deve ordinare qualche cosa o andar via!
— Ah, sì — disse Rebucchi, seccato — E allora vi ordino di togliervi dai piedi perché mi state annoiando con le vostre chiacchiere.
Il cameriere strinse i pugni, fece per slanciarsi su Rebucchi ma poi si contenne, una nube gli appannò gli occhi, da cui sgorgarono due lagrime, mentre si allontanava, tremando in ogni sua fibra.


Il signor Rebucchi entrò in un negozio di biancheria ed un giovane commesso accorse premuroso dietro il bancone domandandogli che cosa desiderasse.
— Vorrei un paio di mutande — disse Rebucchi.
— Come le desidera? — chiese il commesso.
— Con l’apertura davanti — rispose seccato, Rebucchi.
Il commesso divenne rosso come un pomodoro ed obiettò:
— Ma, signore, tutte le mutande hanno lo spacco davanti. Intendevo dire da che prezzo le desidera.
— Ah, sì? — esclamò, sorpreso, Rebucchi — Me ne dia allora un paio da venti lire.
— Cosa? — esclamò, stupito, il giovane commesso — Ma signore, con venti lire oggi non si compra nemmeno un francobollo!
— Io non son venuto qui per comprare un francobollo — rispose, irritato, Rebucchi — Lei crede forse che io possa mettermi un francobollo al posto delle mutande?
— Ma io, ma io… — replicò, al colmo della confusione, il commesso — volevo…
— Lei voleva, lei voleva — lo interrompe furioso Rebucchi — Non mi interessa un corno quello che lei vuole. Lei è padronissimo di mettersi un francobollo sotto i pantaloni ma quando un cliente le chiede mutande lei deve offrirgli mutande e non francobolli. Cambi mestiere, giovanotto!
Con una manata Rebucchi sì calcò, furibondo, il cappello sulla testa ed uscì dal negozio brontolando mentre il commesso, pallido come un panno lavato, ripeteva macchinalmente :
— Ma io, ma io…


Il signor Rebucchi entrò, sbuffando per il caldo, in un’agenzia turistica e si rivolse all’impiegato, dello  sportello «Informazioni».
— Per favore — gli domandò — A che ora parte il treno per Roma?
— Quale treno? Ci sono almeno dieci treni per Roma — rispose, seccato l’impiegato asciugandosi il sudore dalla fronte — Mi dica lei a che ora vuol partire.
— Come sarebbe a dire — scattò, indignato, Rebucchi — Come posso sapere io a che ora debbo partire se non so a che ora parte il treno?
— E debbo saperlo io — ribatté stizzito l’impiegato — a che ora lei vuol partire?
— Faccia meno lo spiritoso — vociferò Rebucchi. — Io non le ho mica chiesto a che ora debbo partire io, ma a che ora parte il treno!
— Ma quale treno, per la miseria .’ — urlò l’impiegato.
— Il treno per Roma, sangue di Giuda! — gridò Rebucchi, diventando  paonazzo.
— Signore! — disse l’impiegato a denti stretti, strizzando la camicia che grondava di sudore — Le ho detto che per Roma partono dieci treni al giorno e quindi è da cretino domandarmi a che ora parte il treno perchè ne partono dieci, ha capitooo?!
— Senta — sibilò Rebucchi mentre il sudore gli bolliva in bollicine sulla nuca — se lei ha inteso darmi del cretino le dirò che la prima impressione che ho avuto guardandolo è che lei è un perfetto scemo. Crede che io viaggi su dieci treni? A me basta uno solo, ha capito? E se lei non conosce nemmeno l’orario del treno per Roma che cosa sta a tare a questo sportello? Perché non va a piantar cavoli invece? Ignorante!
Il signor Rebucchi uscì dall’agenzia sbuffando per il caldo e per l’indignazione mentre l’impiegato s’accasciava sulla sedia preso da capogiro.

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