Congratulazioni, hai appena incontrato la ICF


«Non credo che le autorità sappiano davvero com’è fatto un hooligan. O cosa pensa, o come agisce. Pensano che l’hooligan sia semplicemente qualcuno che cammina per la strada coi capelli rasati a zero, un paio di Dr. Marten’s ai piedi, un paio di braccialetti ai polsi… con una lattina di birra in mano, pronto a tirar mattoni. Ma non è per nulla così.»
Comincia con queste parole un documentario intitolato semplicemente Hooligan, diretto da Ian Stuttard nel 1985. Di parole, sul fenomeno degli hooligan, ne erano state spese molte – e molte ancora furono spese in seguito – ma questo di Stuttard è forse il documento più accurato ed esplicativo mai registrato. Senza dubbio il più importante. Stuttard ha avuto la possibilità di lavorare a stretto contatto con i membri della tifoseria organizzata più violenta del West Ham, seguendone le trasferte e riprendendone gli scontri, raccogliendone le impressioni e raccontandone le speranze, riuscendo a studiarne i comportamenti e capirne i ragionamenti. Nel suo film, così come nei libri dell’ex hooligan Cass Pennant, ci viene proposto un ritratto preciso dell’hooligan claret-and-blue, un ritratto per nulla esaltante e (a differenza che nei libri di Pennant) per nulla esaltato.

A metà degli anni Ottanta, mediamente un abitante dell’East End su cinque era senza lavoro. Quelli che ce l’avevano, nella maggior parte dei casi non avevano grandi prospettive professionali. Nessuno vedeva davanti a sé un futuro granché roseo, ed era quindi necessario trovare una valvola di sfogo per la tensione e la frustrazione accumulate durante la settimana, qualcosa che potesse riempire i week-end e renderli interessanti. Per qualcuno questo qualcosa era la droga e per qualcun altro l’alcol, ma per molti la soluzione più ovvia era il calcio.
«Non si andava più allo stadio indossando i colori della propria squadra, così si vedevano vestiti firmati, ma anche violenza firmata. Noi ci facevamo chiamare Inter City Firm, ICF. I giornali ci chiamavano “les thugs nouveaux”, e visto che la Inter City Firm del West Ham era composta soprattutto da giovani di East London e dell’Essex, non c’era nessuno più “nouveaux” di noi. Ma non c’eravamo solo noi londinesi, c’erano anche i Soccer Casuals dell’Aberdeen, la Frontline del Middlesbrough, la Soul Crew del Cardiff, la 6.57 del Portsmouth… Dall’estremo nord fino al profondo sud, eserciti di ragazzi si davano battaglia per le strade, nei pub e sulle gradinate, sempre nel nome del loro dio: la loro squadra di calcio.» [1]
L’hooliganismo non è però un fenomeno recente, nel mondo del calcio inglese. E’ anzi vecchio quanto il calcio organizzato, essendo presente sulle gradinate degli stadi fin dalla fine del XIX secolo. Il primo episodio di violenza collegato al calcio moderno di cui si ha notizia risale infatti a un’amichevole tra Preston e Aston Villa giocata nel 1885, in cui i tifosi di entrambe le squadre picchiarono selvaggiamente i giocatori avversari. Fu però solo a partire dalla metà degli anni ’50 del secolo successivo che ci si iniziò ad occupare con maggior enfasi del problema, sull’onda della grande preoccupazione che pervadeva tutta la Gran Bretagna riguardo la criminalità giovanile. Solo allora cominciò a formarsi l’idea comune dell’esistenza di una persona per la quale il calcio e la violenza erano una cosa inscindibile, per la quale erano uno stile di vita. Un’idea che prese il nome di “football hooligan”.
Fino alla trasmissione del documentario di Stuttard, si riteneva che le bande di hooligan fossero esattamente come descritto dalla voce fuori campo che apre il film e che è stata citata all’inizio, un “meaningless, mindless moron”. La nascita dei “football casuals”, ossia quegli hooligan che indossano abiti “civili” invece dei colori della propria squadra cui si riferisce Cass Pennant, deriva proprio dalla volontà di evitare i controlli della polizia, abituata a tenere sott’occhio i fanatici “in divisa” che popolavano le gradinate negli anni Settanta. Fino ad Hooligan non si aveva idea di quanto le firm fossero effettivamente organizzate, né tantomeno di come fossero organizzate le loro scorribande. Meno che mai, cosa spingesse quei ragazzi e quegli uomini a fare ciò che facevano.
I tifosi violenti avevano iniziato a organizzarsi in gruppi negli anni ’60, tendendo a raggrupparsi soprattutto per ceto sociale e provenienza geografica, ma questi gruppi – le firm, appunto – si svilupparono soprattutto nel decennio successivo, quando nella maggior parte degli stadi furono allargate le curve per accomodare più tifosi e istituiti i treni speciali per facilitare le trasferte. La curva (ma anche il proprio pub) era vista dagli hooligan come il proprio territorio, un territorio che doveva essere protetto ad ogni costo e con ogni mezzo dagli assalti dei tifosi avversari, ma anche un territorio nemico che bisogna assolutamente conquistare, secondo regole ben precise. Questo che gli hooligan vedevano semplicemente come un gioco, violento e pericoloso ma pur sempre un gioco, è spiegato molto bene da Cass Pennant: «Se mai quella parte dello stadio viene invasa con successo e controllata dai tifosi ospiti, be’ si tratta della sconfitta più bruciante in assoluto per i tifosi di casa. L’invasione di una curva viene registrata nella memoria e ricordata per sempre. Il morale e l’orgoglio dei tifosi della curva di casa vengono scossi duramente; significa subire una completa umiliazione. […] Tutto dipende da come difendi la tua curva e il tuo territorio. […] Una regola non scritta diceva che se noi avessimo avuto il controllo di una parte qualsiasi della curva nemica al momento del calcio d’inizio, quell’area poteva essere dichiarata persa. Era sempre considerata persa se riuscivamo a far scappare il nemico da dietro la loro porta e non erano poi loro, ma gli Old Bill a sbatterci fuori. Diventava una specie di tiro alla fune. I due eserciti usavano la pura forza del numero per spingere vigorosamente la linea degli Old Bill e sbattere fuori interamente l’altra fazione. Noi, gli invasori, cercavamo sempre di occupare la parte alta della curva perché fosse più difficile sbatterci fuori, mentre quelli di casa cercavano di mandare gente sui fianchi per accerchiarci con una manovra a tenaglia.» [2]
Era dunque una questione di rispetto e di onore. La violenza associata al calcio non era solo un divertimento (perché agli hooligan piaceva fare a botte) o una valvola di sfogo (perché a loro serviva fare a botte): era un mezzo di rivalsa. Personale e di gruppo. Per qualcuno era quasi una questione di sopravvivenza. La propria squadra di calcio era vista come una rappresentanza del proprio quartiere o della propria città – della propria comunità, della propria tribù – e in un modo o nell’altro si doveva far sì che i propri colori uscissero vincitori dallo scontro con gli avversari. Sul campo o sugli spalti, o fuori dallo stadio. Possibilmente in tutti e tre i luoghi. E possibilmente anche nei titoli dei giornali del giorno dopo. «Nella loro concezione – spiega un sociologo intervistato da Stuttard – essere inglesi vuol dire essere in grado di proteggersi, vuol dire dimostrare di essere uomini più duri dei tedeschi o dei francesi, o di chiunque altro si opponga all’Inghilterra».
Negli anni ’70 e ’80 le partite venivano spesso interrotte per le intemperanze dei tifosi che traboccavano fin sul terreno di gioco, ma quando una firm decideva di invadere il campo volontariamente lo faceva per un motivo ben preciso: la propria squadra stava perdendo, e interrompendo la partita si voleva dare una svegliata ai propri giocatori, far capire che secondo loro non si stavano impegnando a sufficienza.
Gli scontri sulle gradinate o fuori dallo stadio, nella mente degli hooligan, erano soltanto il secondo tempo dello scontro tra le due squadre: «vi abbiamo battuto sul campo, vi abbiamo preso a calci in culo in curva e adesso vi spacchiamo la faccia per strada». E qui entrava in gioco anche un altro aspetto, che andava al di là della singola partita, una “gara” tra le firm di tutta l’Inghilterra per chi si dimostrava – sul campo di battaglia come anche nei resoconti dei giornali – il gruppo più duro e violento del paese. A contendersi il titolo erano sostanzialmente cinque gruppi: gli Headhunters del Chelsea, la Red Army del Manchester United, la Service Crew del Leeds, i Bushwackers del Millwall e la ICF del West Ham.

La Inter City Firm prese il nome dai treni che i suoi componenti erano soliti prendere per seguire la squadra in trasferta, preferendo evitare i treni speciali per i tifosi così da tenersi lontani dalla polizia e da eventuali imboscate dei tifosi avversari. Quando poi la polizia capì come stavano le cose, la ICF cominciò a fare le trasferte su dei furgoncini o con degli autobus a noleggio. Verso la metà degli anni ’80 ne facevano parte all’incirca 400 persone, per la maggior parte teen-ager o ragazzi con meno di 25 anni, i più anziani arrivavano a malapena a trent’anni e si erano fatti le ossa nelle altre firm del West Ham che avevano caratterizzato gli anni ’70: la Mile End, la South Bank Crew di Stevie Hogan e la Teddy Bunter Firm di Bill Gardner. I più giovani, i ragazzi di 16–17 anni, facevano parte di un gruppo speciale denominato “Under Fives”, che negli scontri aveva compiti particolari come fare da esca o da vedetta.
Una delle cose che oggi più colpisce, nelle testimonianze raccolte da Stuttard, è come l’attività degli hooligan sia completamente estranea agli effetti dell’alcol. Gli hooligan della ICF – come presumibilmente anche i membri delle firm rivali – non bevevano mai prima della partita, e prima degli scontri, se non una singola birra per brindare a ciò che sta per succedere. Preferivano tenere la testa sgombra, volevano essere in grado di pensare lucidamente perché sul campo di battaglia dovevano essere in grado di mettere in pratica alla perfezione la tattica studiata così scrupolosamente. È questa la grande differenza tra i veri hooligan che popolavano il calcio inglese degli anni ’80 e gli epigoni che ne ripetono in qualche modo le gesta oggigiorno, in Inghilterra come in Italia o in altri paesi: quella degli hooligan era una violenza fredda e studiata, era una vera e propria ragione di vita; oggi è per la maggior parte il delirio di qualche ubriaco privo di idee e di ideali, qualcuno che i veri hooligan non esiterebbero a definire “una femminuccia”.
Al di là delle rivalità cittadine, le costose trasferte in Intercity verso le città del nord erano le occasioni di scontro che la ICF attendeva con maggior interesse. I motivi erano sostanzialmente due: innanzi tutto, non essendo conosciuti dagli agenti della polizia locale sapevano di poter arrivare più facilmente a contatto con i tifosi avversari, e quindi ottenere maggior soddisfazione dal loro viaggio; e poi, soprattutto, vedevano gli abitanti del nord del paese come qualcuno di totalmente estraneo a loro, un vero e proprio straniero. «Sono due mondi diversi: il nord e il sud, due razze animali completamente distinte», dice un hooligan intervistato da Stuttard. «Lo si vede anche solo dal modo di vestire – precisa un altro – puoi riconoscere un londinese da uno del nord da come si veste. […] Loro possono provare a vestirsi come noi, a radersi e comportarsi come dei londinesi, ma sembrerebbero soltanto trasandati. E per noi sarebbe la stessa cosa: puoi stare là per un mese e provare a impararne i comportamenti, a imitarli, poi entri nel loro pub e nello stesso istante in cui ci metti piede ti becchi una coltellata».

Una particolarità della ICF rispetto alle firm rivali era la presenza di un discreto numero di hooligan di colore. La maggior parte dei gruppi di tifosi violenti in Inghilterra si riconosceva nelle idee fasciste del National Front, e probabilmente presi singolarmente anche molti membri della ICF ci si riconoscevano, ma a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 l’East End stava cambiando e anche i neri facevano parte di quella comunità. Quei ragazzi di colore erano cresciuti al loro fianco e avevano vissuto le loro stesse esperienze, meritavano rispetto nonostante il colore della pelle, perché anche loro erano l’East End. Era quindi idealmente anche per loro che gli hooligan della ICF combattevano, ed era quindi un diritto anche loro quello di combattere. I bianchi sapevano che i neri non li avrebbero abbandonati nel momento del bisogno, che non sarebbero scappati davanti al nemico, perché anche loro facevano parte della tribù, anche loro erano degli hammers. In effetti, in quel momento la ICF era forse l’unico ambiente in cui i ragazzi neri dell’East End potessero sentirsi pienamente accettati, l’unico ambiente in cui nessuno avrebbe mai fatto pesare loro il fatto di essere neri.
L’altra particolarità della ICF, la più importante, era di essere una bandiera che racchiudeva al suo interno i diversi gruppi di hooligan del West Ham per coordinarli e prepararli al meglio per il giorno della battaglia. Quella che i giornali definivano “mindless violence” era in realtà un atto studiato con la massima attenzione fin nei minimi particolari, spesso per diversi giorni e non di rado con settimane di anticipo rispetto al giorno della partita. La pianificazione della battaglia diventava per loro l’argomento di conversazione principale, e diventava il pensiero più importante della loro giornata. Ma non l’unico, perché a differenza di quello che si pensava fino a quel momento, gli hooligan organizzati avevano un lavoro regolare. Un lavoro che nel caso di molti Headhunters del quartiere borghese di Chelsea era ben pagato e magari persino di responsabilità, ma che nell’East End era per la maggior parte delle volte mal pagato e occasionale. D’altra parte nell’Inghilterra dei primi anni Ottanta c’erano più di 3 milioni di disoccupati, ma il lavoro era necessario per potersi pagare le costose trasferte per seguire la squadra e battagliare in suo nome. E per comprarsi i vestiti firmati che erano diventati obbligatori in curva.
Se negli anni ’70 gli hooligan del West Ham indossavano tutti gli stivaletti della Doctor Marten’s, nel decennio successivo ecco le tute da ginnastica Le Coq Sportif, le polo Fred Perry e Lacoste, i maglioncini Burberry e Ralph Lauren, i giacchetti Lonsdale ed Henri Lloyd e le scarpe Timberland. «Vestiti firmati e violenza firmata», come diceva Cass Pennant. E la violenza della ICF era firmata da un biglietto da visita che i suoi capi lasciavano accanto ai corpi sanguinanti dei nemici alla fine della battaglia, un biglietto che salutava gli sconfitti con quella stessa frase che dà il titolo a questo testo e al libro di Pennant che raccoglie una serie di interviste ai membri più importanti della sua firm.
Ciò che si capisce leggendo quelle interviste, o guardando quelle di Stuttard nel suo documentario, è quanto gli hooligan della ICF ritenessero normale il loro comportamento. «Fa parte della natura umana… è la lotta per il territorio…» è un concetto che viene ripetuto più volte, da più persone. Come viene ripetuta spesso anche l’idea che in fondo non stavano facendo del male a nessuno, se non ai tifosi avversari e a qualche poliziotto che – in quanto rappresentante di un Governo visto come dispotico – veniva considerato nemico da entrambe le fazioni. «Andiamo in giro per strada cercando altri teppisti. Siamo pronti a fare a botte con chiunque, ma vogliamo combattere solo con quelli che vogliono combattere con noi». Secondo loro il tifoso nomale non aveva niente da temere dalle loro gesta, dimenticandosi che le loro risse impedivano alla partita di svolgersi regolarmente e soprattutto che le loro scazzottate avvenivano nei quartieri dove vivevano anche i tifosi regolari o sui treni della metropolitana che anche i tifosi regolari prendevano per andare allo stadio. Come detto, nella loro concezione del gioco del calcio la violenza ne era parte integrante, e per quasi venticinque anni è stato effettivamente così.

Il giorno dopo la strage dell’Heysel l’allora Primo Ministro britannico Margaret Thatcher dichiarò che «bisogna fare qualunque cosa, qualunque cosa, per mettere fine a questo fenomeno. Ma la cosa più importante, dobbiamo prendere i responsabili di questi terribili atti di violenza. E questo richiede un’azione da parte della Football Association. Se ci sarà bisogno di una nuova legge la faremo, e ci sarà la piena collaborazione della polizia. Ma ci sarà bisogno anche della piena collaborazione dei dirigenti delle squadre di calcio, perché loro sanno chi è veramente loro tifoso e chi non lo è.» Nei giorni immediatamente seguenti, il Presidente del Liverpool John Smith annunciò la decisione del club di non prendere parte alla Coppa UEFA della stagione successiva, ma poche ore dopo la Federcalcio fu costretta dal Governo Thatcher a vietare a tutte le squadre inglesi di partecipare alle competizioni europee per un anno. Due giorni dopo, però, l’UEFA decise di squalificare tutte le squadre inglesi a tempo indeterminato. Costretto da questa squalifica, che terminerà solo dopo i Mondiali di Italia ’90, il calcio inglese prese finalmente una posizione decisa contro l’attività degli hooligan.
Fino ad allora i club e i giocatori erano molto vicini ai gruppi di tifosi più violenti, proprio in nome di quello spirito della comunità che gli hooligan sentivano di difendere tanto quanto la loro squadra del cuore. Il Britannia, il pub in cui storicamente si sono sempre ritrovati i tifosi del West Ham prima e dopo le partite al Boleyn Ground, è stato per un certo periodo di proprietà di Frank Lampard Sr, che conosceva quindi personalmente quelle stesse persone che il sabato pomeriggio gli impedivano di giocare tranquillamente a pallone. Il mondo del calcio non avrebbe potuto risolvere da solo il problema dell’hooliganismo neanche volendo, ma finalmente le autorità capirono che contenere i facinorosi non era il modo migliore di affrontarlo.
Le misure governative prese immediatamente dopo gli eventi di Bruxelles comprendevano il divieto di vendita degli alcolici nelle vicinanze dello stadio nel giorno delle partite, una presenza più massiccia dei poliziotti all’interno dello stadio e l’utilizzo obbligatorio di un servizio di ripresa a circuito chiuso che era in uso dalla fine degli anni ’70 ma che aveva fino a quel momento solo portato allo spostamento delle battaglie più violente in luoghi esterni allo stadio, e prevedibilmente ebbero poco effetto. Fu solo con le disposizioni suggerite dal rapporto Taylor che fece seguito al disastro di Hillsborough [3] che il problema cominciò a essere risolto. Tra le altre cose fu deciso di far giocare alcune partite in orari diversi da quelli classici in modo da evitare che tifoserie avversarie si incontrassero casualmente andando allo stadio, gli stadi stessi furono ristrutturati per far sì che ci fossero solo posti a sedere e fu reso obbligatorio il controllo della vendita dei biglietti da parte delle società attraverso l’iscrizione dei tifosi ad uno speciale registro in vigore ancora oggi (l’equivalente della nostra Tessera del Tifoso, ma organizzata seriamente), in modo da impedire l’accesso ai facinorosi e identificarli facilmente in caso di scontri. Ma soprattutto, dopo l’Heysel si smise di dare agli hooligan arrestati delle bacchettate sulle mani, cominciando finalmente a inasprire le pene detentive. Uno dei primi hooligan a essere condannato a una pena più severa, secondo le direttive della nuova legge, fu proprio Cass Pennant, una delle figure di spicco della ICF. Bill Gardner lo segui pochi giorni dopo, e ben presto sette dei leader degli Headhunters fecero loro compagnia in prigione.
Fare a botte allo stadio era diventato impossibile, e senza la violenza agli hooligan il calcio non interessava più. Ma della violenza gli hooligan avevano ancora bisogno, e lo sapevano tutti. Abituati a menar le mani e a farsi rispettare con le buone o con le cattive, per gli ormai ex hooligan della ICF fu abbastanza naturale riciclarsi come buttafuori nei tanti locali notturni della Capitale. Ma visto che la maggior parte di quei locali erano in mano alla malavita più o meno organizzata, molti finirono per affiancare a questa attività quella di picchiatore o di guardaspalle nei trasporti di merci di contrabbando, spesso anche armi e droga [4]. Tutti, a prescindere da ciò che fecero in seguito nella vita di tutti i giorni, si allontanarono dagli stadi di calcio, preferendo guardare le partite nei pub piuttosto che sugli spalti. Il loro amore per la propria squadra si affievolì, perché considerando la curva parte integrante della squadra, quando la curva venne a mancare si perse per loro l’intero concetto di squadra: «Hanno ingigantito il club fino a farlo diventare un tempio, e poi l’hanno lasciato vuoto. […] Per metà del tempo non la ritieni neanche più la tua squadra. Sono solo i tifosi che restano uniti, fianco a fianco, che fanno sì che quella sia la tua squadra», dice Cass Pennant intervistando Carlton Leach per il suo sito internet.
L’amore per la squadra del cuore può essere sfiorito, ma la loro mentalità da hooligan non si è certo cancellata. Gli hooligan di allora sono hooligan ancora oggi, semplicemente non hanno più la possibilità di esercitare i loro tipici atti di violenza. Se si trovassero nella condizione di ricominciare, quasi tutti ricomincerebbero senza pensarci due volte, e dietro a loro andrebbero tutti questi bambini e ragazzi che ne ammiravano le gesta osservandoli dagli altri settori dello stadio, come anche quelli troppo giovani per averli visti in azione di persona ma a cui sono stati raccontati come degli eroi. Persone che ogni tanto oggi mettono in piedi qualche scazzottata con le altre tifoserie, che seguono le proprie squadre nelle trasferte in giro per l’Europa sperando di potersi ritrovare in qualche sana rissa con i tifosi avversari, e quando ci si ritrovano prendono puntualmente un sacco di mazzate. Perché la pericolosità degli hooligan degli anni Settanta e Ottanta non era nella potenza dei loro pugni, ma nell’organizzazione che li metteva in condizione di tirarli nel migliore dei modi.

Alberto Cassani (Marzo 2012)

Note

[1] Dal film di Jon S. Baird Cass (2008), tratto dall’omonima autobiografia di Cass Pennant.
[2] Cass Pennant, Congratulazioni, hai appena incontrato la ICF (West Ham United), Baldini Castoldi Dalai (2004).
[3] Lo stadio dello Sheffield Wednesday nel quale il 15 Aprile 1989 si sarebbe dovuta giocare la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest. A causa della cattiva organizzazione della sicurezza ai cancelli d’ingresso, migliaia di tifosi del Liverpool furono fatti entrare tutti nello stesso settore dello stadio. L’eccessivo peso degli spettatori provocò un crollo delle gradinate e 96 persone persero la vita, schiacciate contro le barriere di protezione che impedivano loro di trovare rifugio in campo. I feriti furono oltre 700. Il disastro non è in alcun modo da collegare al fenomeno degli hooligan, ma convinse la Federcalcio inglese a eliminare le barriere da tutti gli stadi e portare le gradinate ad avere esclusivamente posti a sedere.
[4] Capitò ad esempio a Carlton Leach, uno dei capi della ICF, la cui storia è stata raccontata da lui stesso nell’autobiografia Muscle e da Julian Gilbey nel film Rise of the Footsoldier (2007).

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